Teatro, intervista a Livia Ferracchiati. Todi is a small town (o forse no)

livia ferracchiati

di Francesca Cecchini

 

Intervista alla regista Livia Ferracchiati. L’artista umbra ci guida alla scoperta dello spettacolo in scena a Terni fino al 30 novembre ed alcune anticipazioni su “Stabat Mater”, secondo capitolo della trilogia sulla transessualità.

Michele, Stella, Elisa e Caroline, questi i nomi dei quattro trentenni le cui vite si incrociano nella città di Todi. A fare da collante, un documentarista che, tra finzione e realtà, mostra al pubblico le dinamiche di vita all’interno di un piccolo centro in cui tutti conoscono tutti.

Il comune umbro diventa così specchio di una qualunque provincia italiana, che si muove tra tabù e valori morali, nello spettacolo scritto e diretto da Livia Ferracchiati in scena allo Studio 1 di Terni fino al prossimo 30 novembre, nell’ambito della stagione di prosa curata dal Teatro Stabile dell’Umbria. Livia Ferracchiati, originaria della città che si affaccia dall’alto colle, ci spiega di aver scelto Todi come punto di partenza dello spettacolo per la sua ferma convinzione che “quando si può si deve parlare di quello che si conosce”. Todi diventa spunto e punto di partenza per ampliare l’argomento.

“Volendo parlare della provincia mi piaceva, dunque, partire da un racconto su Todi perché è lì che ho fatto una ‘ricerca sul campo’ di circa venticinque anni (NdR. la regista è nata ed ha vissuto a Todi fino ai 20 anni, dove periodicamente tutt’ora torna). Per me è stato naturale iniziare da lì. La vera ragione è che avevo, riguardo a questo lavoro, delle immagini in mente che partivano da alcune esperienze che ho vissuto, da alcuni scorci della mia cittadina. Piano piano, mettendoli insieme, ho capito, appunto, che si andava a parlare della vita in provincia. Forse è stata proprio Todi ad ispirarmi anche perché chiaramente fa parte della mia vita.

Is Todi a small town?

Il lavoro parla di Todi ma è un discorso che, a mio avviso, si può estendere a tutta la provincia italiana e ai quartieri delle grandi città. Il titolo deriva anche da un fatto autobiografico perché quando si andava a scuola, soprattutto alle medie, alla mia generazione, veniva insegnato a rispondere alla classica domanda ‘where are you from?’ con ‘Todi is a small town’.

Cinque attori in scena.  

Abbiamo cinque attori. Quattro interpretano i tuderti della storia che si incontrano e passano del tempo insieme. C’è poi un quinto personaggio che è il documentarista, lo ‘straniero’, che commette la finzione scenica con i video che vengono proiettati in scena.

È il video maker che ha girato realmente il documentario?

Non è colui che ha materialmente girato il documentario ma è colui che ha fatto le interviste ai centodieci tuderti durante il periodo di ricerca.  

Qual è il concetto di provincialismo emerso dalle persone intervistate durante la ricerca?

Ciò che è emerso, che è poi quello che sentivo anche io, credo sia la provincia con i suoi lati positivi (quelli della vicinanza e della comunità ristretta dove tutti si conoscono e dove ci si sente anche più protetti, dove c’è una solidarietà più forte) e, contemporaneamente, i lati negativi di una realtà così “presente”, che inevitabilmente porta ad una oggettiva difficoltà di liberarsi dalle ‘gabbie’ che ognuno di noi ha. Ciò che di più lampante emerge è che le persone hanno paura del giudizio altrui. Questo è ovvio ma, da un certo punto di vista, è anche molto castrante. Dallo spettacolo credo emerga anche che, in qualche modo, le persone indirizzino le loro scelte di vita verso una direzione piuttosto che un’altra per paura del giudizio della collettività. Chi, invece, rompe lo schema si ritrova con il carico di dover affrontare quello che ne consegue.

C’è un momento in cui il ‘provincialismo’ pesa all’interno dello spettacolo e crea una frattura?

Ci tengo a dire che, nonostante nelle precedenti interviste sembri essere emerso questo concetto, io non racconto la provincia in senso negativo. È un racconto senza giudizio, le  conclusioni spettano al pubblico. Questo è molto importante per me. È interessante vedere le reazioni delle persone in sala. Ci si può riconoscere o meno in ciò che si vede. Non mi interessa dare una risposta. Mi interessa porre degli spunti di riflessione. Rispondendo alla tua domanda, l’elemento di frattura arriva durante un episodio, l’evento centrale dello spettacolo, che porta a cambiare le traiettorie dei personaggi. Uno dei quattro tuderti ad un certo punto ha una crisi bipolare. È l’unico personaggio che evade da Todi ed evade anche a livello scenico dallo spazio molto ristretto e bidimensionale in cui sono posizionati gli attori. C’è una striscia di un metro e mezzo con dietro un muro, unico spazio in cui gli attori agiscono stando per lo più in piedi.  Non ci sono oggetti e c’è una sorta di astrazione dei movimenti, seppur il linguaggio e il loro relazionarsi sia in realtà molto improntato verso un ‘certo realismo’. Questo personaggio esplode ed è l’unico che ha il coraggio di ‘liberarsi’ da determinate cose. Ovviamente il concetto non è che la persona che impazzisce è davvero libera. Piuttosto è che solamente chi perde il senno riesce a superare determinate barriere che la società ci pone in tanto ambiti. Proprio perché questo superamento non è dato da una liberazione ‘sana’, ma da una liberazione ‘insana’, gli altri non la seguono. Difatti sembra libera ma è in un’ulteriore ‘prigione’. Gli altri personaggi non riescono a cogliere l’occasione per comprendere che non è necessario arrivare a quel punto, basterebbe semplicemente lottare per una libertà ‘più sana’.  

La scelta della videoproiezione?

In questo caso la proiezione avviene su questo muro di cui ti parlavo prima ed ha un uso puramente narrativo. Serve a raccontare la storia. Da un punto di vista registico, il video viene proiettato sul muro e investe, schiacciandoli sulla parete, gli attori perché tutte le loro azioni sono in qualche modo determinate dalla presenza della società, della comunità tuderte. Nelle immagini ci sono i tuderti reali che abbiamo intervistato, che parlano proiettandosi sui quattro personaggi. Narrativamente il video è legato a ciò che accade. Le interviste hanno un’impronta documentaristica e i personaggi stessi sono intervistati dal documentarista in scena. C’è questo doppio collegamento.

Terminato il percorso nella ‘small town’, Livia Ferracchiati dove si dirigerà?

A Milano perché sto iniziando a lavorare ad altri progetti. Quest’anno ne ho tre di cui uno riguarda il “Peter Pan guarda sotto le gonne”, primo capitolo della trilogia sulla transessualità, che abbiamo già fatto a Milano lo scorso anno e che riprenderemo, sarà all’Elfo il prossimo mese di marzo. Il secondo capitolo si intitola “Stabat Mater”, e inquadra la storia di una persona nel momento in cui cerca di capire cosa gli serve nella sua vita, riferito esplicitamente all’identità di genere. Si domanda, quindi, se sia necessario o meno fare la transizione. Questo è il fatto specifico, perché si può anche decidere di  non fare una transizione fisica e di vivere con la propria identità dichiarata con il corpo che si ha.

Cercare di vivere sereni senza cambiare il proprio corpo è possibile?

Di tutti i temi intorno all’identità di genere e, quindi, alla transessualità, è uno dei più nuovi. Ci sono state molte tappe in passato e ora iniziano ad esserci molte persone che scelgono di non fare la transizione pur dichiarando la loro identità di genere. Un’identità di genere che non è perpendicolare al sesso anatomico. Conosco due persone, nate femminili, che hanno scelto di vivere al maschile – e facile viene relazionarsi con loro al maschile – che non vogliono fare la transizione. 

C’è anche forse  paura di affrontare la transizione considerando la trafila lunga, dolorosa e complessa…

Affrontare una transizione ,proprio per le mille difficoltà, richiede determinazione e pazienza, ma ci vuole coraggio anche per decidere di vivere al maschile con un corpo femminile. È forse anche più complesso perché la società è binaria, quindi, devi essere maschio o femmina, devi essere etero o omosessuale. È tutto in questo dualismo che la natura umana non prevede in realtà. In qualche modo il secondo capitolo della trilogia parla proprio di questo. Mi interessa mostrare chi è davvero una persona transgender, termine che, in questo caso, è il più corretto: transgender è una persona che non ha ancora compiuto un ‘percorso medicalizzato’. Desidero far vedere che le persone transgender vivono le stesse pulsioni e gli stessi problemi che hanno tutti gli altri. La storia si incentra sulle difficoltà del rapporto di coppia, sui problemi relativi al lavoro, così come sul fatto che questa persona deve affrontare una terapia psicologica se vuole ottenere il nullaosta per prendere gli ormoni e, durante questa terapia, inizia a provare un’attrazione per la sua psicologa.

La Ferracchiati prende un argomento sensibile e complesso e lo pone al centro di una storia di vita quotidiana che potrebbe essere quella di chiunque. Un argomento che spesso non viene affrontato in modo appropriato. Probabilmente ‘vittima dell’ignoranza’ la società che, a volte, non coglie (e non accetta) il momento delicato e difficile di persone che, oltre a dover convivere con l’enorme disagio di essere nate in un corpo che non le rappresenta, si ritrovano emarginati, a volte derisi, non compresi e non accettati nella loro naturalezza di impulsi anche dal mondo esterno. “Bisognerebbe parlarne di più – ci dice Livia Ferracchiati -. La teoria del gender di cui tutti parlano non esiste. Si ha paura perché non si sa di cosa si stia parlando. Anche le persone più colte, che hanno una tendenza ‘tollerante’, in realtà utilizzano il termine ‘gender’ in un modo, secondo me, assolutamente scorretto. È divenuta una scorrettezza che si va a perpetrare di bocca in bocca e che occorrerebbe piano piano annullare. Da una parte fa gioco perché si parla dell’argomento, dall’altra se ne parla in maniera sbagliata per cui non so se sia positivo o meno.

Todi is a small town scritto e diretto da Livia Ferracchiati, dramaturgia Greta Cappelletti, con Caroline Baglioni, Michele Balducci, Elisa Gabrielli, Stella Piccioni, Ludovico Röhl, aiuto regia, movimenti scenici e costumi Laura Dondi, scene Lucia Menegazzo, ideazione luci Emiliano Austeri, consulenza illuminotecnica Giacomo Marettelli Priorelli, riprese e montaggio video Brando Currarini e Ilaria Lazzaroni, produzione Teatro Stabile dell’Umbria/Terni Festival, con il sostegno di Indisciplinarte e Associazione Demetra in collaborazione con compagnia The Baby Walk.

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